Lo star-chef Alessandro Borghese ha scelto come base operativa il primo piano di un palazzo targato Giò Ponti affacciato sulla City Life. Una sala moderna, dominata dal bel banco di un cocktail bar dove officia un personale gentile ma non sempre sicuro nel suo ruolo. Il menù business vanta grande coerenza col menù vero e proprio, e questo è un plus su cui è difficile soprassedere sebbene il salto di budget tra l’uno e l’altro sia invero considerevole. Così come è difficile ignorare che, al netto di alcune imperfezioni, una cucina che si articola correttamente assestandosi sul registro della rotondità: in sintesi, un proposta sempre politicamente corretta, impossibile da confutare, sebbene manchi spesso l’emozione. Affatto scontata la cantina, gremita di scelte interessanti soprattutto sul versante delle bolle.
Un tris d’assi, quello tra Matias Perdomo, Thomas Piras e Simon Press al Contraste, dove classicismo e modernità non sono più antipodi ma complementari, e dove ogni dettaglio, dall’illuminazione all’arredamento fino al servizio puntualissimo, dinamico e calzante, è studiato sin nei minimi particolari. Anche in cucina, che oggi si fregia di maggior concretezza rispetto al passato complice una ricerca costante sulla materia prima che ispira piatti grandissimi come la Sarda in saor e originalissimi come le Cozze cacio e pepe. Molto pochi i passaggi da migliorare, quasi nessuno da ripensare, dulcis in fundo, la carta dei vini impressiona per la profondità di annate, mentre l’abbinamento al calice prevede perfino qualche originale deroga extra-enologica.
Chi avrebbe mai pensato che la perfetta collisione tra Nord e il Sud Italia si consumasse all’ultimo piano del Townhouse Duomo Hotel di Milano. Si tratta di una collisione di materie e ingredienti che, accostati l’uno all’altro, compongono nella mente dell’ospite un disegno d’insieme. Un piatto, tra tutti: la Parmigiana in un risotto, dove la melanzana alla brace si sposa col latte in cui è cotto il riso e, insieme, riecheggiano dell’illusione percettiva di una scamorza affumicata. Alcuni tratti di questa contaminazione ammantano anche i dessert, come il Donut di pesca, gelato al timo limone e salsa al vino rosso. Una cucina coriacea e tenace, com’è Felice lo Basso stesso, che opera finalmente con grande serenità espressiva.
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Uno storico hotel rivitalizzato da una ristrutturazione gloriosa, che gli ha restituito una delle terrazze più belle della città. Una storia di fratellanza, questa del nuovo Gallia, con tanto di consulenza dei Cerea – Francesco per la sala ed Enrico per la cucina – che va dalla seduta informale al piano terra, passando per le colazioni e gli eventi e culmina col ristorante gastronomico, gestito operativamente dai fratelli chef Antonio e Vincenzo Lebano che, sotto l’egida dei tristellati fratelli bergamaschi, offrono una cucina raffinatamente partenopea, come nell’imperioso Risotto ai fichi e foie gras, nel Morone con melanzana al miso e granita di erbe aromatiche e, fra i dessert, spicca il Raggio di sole, con caramella ghiacciata di pesca e lavanda e gelato di albicocca e passion fruit. In sintesi, una tra le tavole più interessanti, e divertenti, di Milano.
La grandezza di Niko Romito consiste nella costanza di una proposta straordinaria, la sua, e ubiqua, da quando ha popolato la città delle sue propaggini, che sembrano giocare tra loro costantemente al rialzo. Non solo una meravigliosa vista del Duomo da uno dei tavoli più fortunati, ma anche una sinergia tra sala e cucina assai rare per questo luogo in grazia di Dio, con la cucina gestita dall’executive chef Gaia Giordano, particolarmente a suo agio nei piatti dedicati al mondo vegetale. È il caso del Cavolo arrosto, mandorla, olio al carbone e peperoncino e del freschissimo Sauté di verdure di stagione, estratto di zucca e capperi. Nessuna piaggeria ma anzi una concentrazione francescana nelle Pappardelle, funghi e nocciole e nel reparto dell’arte bianca, pane compreso, che resta il migliore della città.
In una zona felice del Naviglio Grande, l’ultimo nato della famiglia Pinch è gestito, ai fornelli, dalla giovane chef Giulia Ferrara, diplomata all’ALMA con esperienze da Sarri, Ratanà e Al Pont De Ferr. È lei che, con una brigata di sole due persone, soddisfa in maniera tanto originale fino a 60 coperti, tra l’interno e il verandato. Già dagli antipasti si scorge la maturità della chef, che riecheggia in piatti come i Nervetti fritti con crema di yogurt allo zafferano e primi piatti che, benché azzardati, combinano l’impossibile come il risotto con confettura di albicocche e la ‘nduja. Insomma, una cucina interessante e frizzante, con ulteriori margini di miglioramento, si esercita accanto a una bella offerta di cocktail e una sala serena, abilmente gestita da Sergio Sbizzera.
La grandezza di Niko Romito consiste, s’è sempre detto, in un’esecuzione impeccabile ed efficace ovunque le sue insegne si trovino. Bulgari Hotel ne è un fulgido esempio, che proprio a Romito si è affidato come consulente nei ristoranti della sua catena e che in quel di Milano ha insediato il resident chef Claudio Catino, artefice anche delle aperture di Shanghai (neo stellato) e Dubai. A Milano, però, imprescindibile è l’Antipasto all’italiana, un bengodi tra nord e sud dello Stivale, così come l’imperiosa Lasagna o la Pasta al pomodoro: un piatto di apparente semplicità declinato con grande tecnica e gusto. Come si evince da queste portate, lo stile è quello di una grande cucina internazionale d’hotel, ma con quel quid romitiano che regala esperienze antologiche anche per un italiano. Come il commovente Pane al cioccolato, tra i dolci.
Nel proliferare di pizzerie più o meno gourmet, tra impasti, lievitazioni, idratazioni e tecniche ataviche, la Gran Milan continua a offrire stimolanti spunti di riflessione: una di queste è Lievità, che il maestro pizzaiolo Giorgio Caruso ha dislocato in ben cinque punti dell’ecumene terrestre. In quello milanese di via Ravizza, le farine di crusca e germe sono mantenuti nella loro interezza nutrizionale e la maturazione è di 48h. Ogni pizza, qui, è un territorio, come la siciliana Melanzà con pomodoro San Marzano, tartare di melanzane, olio di Nocellara del Belice e scorzetta di limone candita o la Campania che, però, sconta un pomodoro del Piennolo un po’ troppo acido e un impasto un poco gommoso. Ottima, invece, la Verdeoro.
Yoji Tokuyoshi ha inventato un nuovo genere culinario: una contaminazione inedita e personalissima di cultura italiana e giapponese, che sono poi le due anime che lo abitano. Non poteva essere altrimenti, del resto, dopo nove anni come secondo di Massimo Bottura, e difatti il suo menu Omakase è sì un viaggio, ma nella sua interiorità. E così si sorbiscono uno a uno tutti i consommé e i brodi e gli estratti e gli infusi che hanno popolato la sua quotidianità più prossima, mentre a ingredienti come l’anguilla, il wagyu, il lardo di Colonnata e a una bislacca pizza capricciosa è dato di rappresentare, oltre al suo mondo interiore, anche la parata degli antipasti. Ma c’è anche un impeccabile, quasi francescano spaghetto nella contemporaneità di Yoji, e un indimenticabile petto d’anatra.
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Classe ’85 e una formazione da pasticcere affinata dietro i fornelli di insegne prestigiose, Franco Aliberti è l’anima del nuovo Tre Cristi che, partendo da un’idea di fondo, l’esaltazione del prodotto ancor più che della tecnica, fa della semplicità e dell’essenza i suoi punti cardinali. E difatti, nei suoi piatti si combinano uno, due, massimo tre ingredienti che arrivano da una piccola, ma sempre più grande, produzione autarchica proveniente da una cascina alle porte di Milano. Ne sono un emblema 100% zucca, che sfrutta tutti gli elementi della cucurbitacea e Mela che, tra i dessert, spicca per la complessità delle diverse lavorazioni come sbrisolona, mousse e composta. Benché ancora in nuce, si tratta di un lavoro di cesello, di studio approfondito e di esimia concentrazione gustativa, che se perseguito potrà portare a grandi risultati.